20 de marzo de 2015
Il Pontefice alla Commissione internazionale contro la pena di morte Un fallimento dello Stato di diritto
Il Pontefice alla Commissione internazionale contro la pena di morte
Un fallimento
dello Stato di diritto
venerdì - sabato 20-21 marzo 2015 L’OSSERVATORE
ROMANO pagina 7
Papa
Francesco ha ricevuto venerdì
mattina
20 marzo in udienza una
delegazione
della Commissione
internazionale
contro la pena di morte.
Di
seguito pubblichiamo una nostra
traduzione
della lettera che il Pontefice
ha
consegnato, nel corso dell’incontro ,
al presidente della Commissione,
Federico Mayor.
Eccellentissimo Signore
Federico Mayor
Presidente della Commissione
Internazionale
contro la Pena di Morte
Signor
Presidente,
Con
queste parole, desidero far giungere il mio saluto a tutti i membri della
Commissione Internazionale contro la Pena di Morte, al gruppo di paesi che la
sostengono e a quanti collaborano con l’organismo che lei presiede. Desidero
inoltre esprimere il mio ringraziamento personale, e anche quello degli uomini di
buona volontà, per il loro impegno con un mondo libero dalla pena di morte e
per il loro contributo volto a stabilire una moratoria universale delle
esecuzioni in tutto il mondo, al fine di abolire la pena capitale.
Ho condiviso alcune idee su questo tema nella mia
lettera all’Associazione Internazionale di Diritto Penale e all’Associazione
Latinoamericana di Diritto Penale e Criminologia, del 30 maggio 2014. Ho avuto l’opportunità
di approfondirle nel mio discorso di fronte alle cinque grandi associazioni
mondiali dedite allo studio del diritto penale, della criminologia, e della
vittimologia e le questioni penitenziarie, del 23 ottobre 2014. In
questa occasione, desidero condividere con voi alcune riflessioni con cui la
Chiesa possa contribuire allo sforzo umanistico della Commissione.
Il
Magistero della Chiesa, a partire dalla Sacra Scrittura e dall’esperienza millenaria
del Popolo di Dio, difende la vita dal concepimento alla morte naturale, e
sostiene la piena dignità umana in quanto immagine di Dio (cfr. Gn 1,
26). La vita umana è sacra perché fin dal suo inizio, dal primo istante del
concepimento, è frutto dell’azione creatrice di Dio (cfr. Catechismo della
Chiesa Cattolica, n. 2258), e da quel momento, l’uomo, la sola creatura
che Iddio abbia voluto per se stesso, è oggetto di un amore personale da
parte di Dio (cfr. Gaudium et spes, n. 24).
Gli Stati possono uccidere per azione quando applicano
la pena di morte, quando portano i loro popoli alla guerra o quando compiono
esecuzioni extragiudiziali o sommarie. Possono uccidere anche per omissione, quando
non garantiscono ai loro popoli l’accesso ai mezzi essenziali per la vita.
«Così come il comandamento “non uccidere” pone un limite chiaro per assicurare
il valore della vita umana, oggi dobbiamo dire “no a un’economia dell’esclusione
e della inequità”» (Evangelii gaudium, n. 53).
La vita, soprattutto quella umana, appartiene solo a
Dio. Neppure l’omicida perde la sua dignità personale e Dio stesso se ne fa
garante. Come insegna sant’Ambrogio, Dio non volle punire Caino con l’omicidio,
poiché vuole il pentimento del peccatore più che la sua morte (cfr.Evangelium
vitae, n. 9).
In
certe occasioni è necessario respingere proporzionalmente un’aggressione in
corso per evitare che un aggressore causi un danno, e la necessità di
neutralizzarlo può comportare la sua eliminazione; è il caso della legittima
difesa (cfr. Evangelium vitae, n. 55). Tuttavia, i presupposti della
legittima difesa personale non sono applicabili all’ambito sociale, senza
rischio di travisamento. Di fatto, quando si applica la pena di morte, si
uccidono persone non per aggressioni attuali, ma per danni commessi nel
passato. Si applica inoltre a persone la cui capacità di recare danno non è
attuale, ma che è già stata neutralizzata e che si trovano private della
propria libertà.
Oggigiorno
la pena di morte è inammissibile, per quanto grave sia stato il delitto del
condannato. È un’offesa all’inviolabilità della vita e alla dignità della
persona umana che contraddice il disegno di Dio sull’uomo e sulla società e la
sua giustizia misericordiosa, e impedisce di conformarsi a qualsiasi finalità giusta
delle pene. Non rende giustizia alle vittime, ma fomenta la vendetta.
Per
uno Stato di diritto, la pena di morte rappresenta un fallimento, perché lo
obbliga a uccidere in nome della giustizia. Dostoevskij scrisse: «Uccidere chi
ha ucciso è un castigo incomparabilmente più grande del crimine stesso. L’assassinio
in virtù di una sentenza è più spaventoso dell’assassinio che commette un criminale».
Non si raggiungerà mai la giustizia uccidendo un essere umano.
La
pena di morte perde ogni legittimità a motivo della difettosa selettività del
sistema penale e di fronte alla possibilità dell’errore giudiziario. La
giustizia umana è imperfetta, e il non riconoscere la sua fallibilità può
trasformarla in fonte di ingiustizie. Con l’applicazione della pena capitale,
si nega al condannato la possibilità della riparazione o correzione del danno
causato; la possibilità della confessione, con la quale l’uomo esprime la sua
conversione interiore; e della contrizione, portico del pentimento e dell’espiazione,
per giungere all’incontro con l’amore misericordioso e risanatore di Dio.
La
pena capitale è inoltre una pratica frequente a cui ricorrono alcuni regimi
totalitari e gruppi di fanatici, per lo sterminio di dissidenti politici, di
minoranze, e di ogni soggetto etichettato come «pericoloso» o che può essere
percepito come una minaccia per il loro potere o per il conseguimento dei loro
fini. Come nei primi secoli, anche in quello presente la Chiesa subisce l’applicazione
di questa pena ai suoi nuovi martiri.
La
pena di morte è contraria al significato dell’humanitas e alla
misericordia divina, che devono essere modello per la giustizia degli uomini. Implica
un trattamento crudele, disumano e degradante, come lo sono anche l’angoscia
previa al momento dell’esecuzione e la terribile attesa tra l’emissione della
sentenza e l’applicazione della pena, una «tortura» che, in nome del dovuto
processo, suole durare molti anni, e che nell’anticamera della morte non poche volte
porta alla malattia e alla follia.
In
alcuni ambiti si dibatte sul modo di uccidere, come se si trattasse di trovare
il modo di «farlo bene». Nel corso della storia, diversi meccanismi di morte
sono stati difesi perché riducevano la sofferenza e l’agonia dei condannati. Ma
non esiste una forma umana di uccidere un’altra persona.
Oggigiorno
non solo esistono mezzi per reprimere il crimine in modo efficace senza privare
definitivamente della possibilità di redimersi chi lo ha commesso (cfr. Evangelium
vitae, n. 27), ma si è anche sviluppata una maggiore sensibilità morale
rispetto al valore della vita umana, suscitando una crescente avversione alla
pena di morte e il sostegno dell’opinione pubblica alle diverse disposizioni
che mirano alla sua abolizione o alla sospensione della sua applicazione (cfr. Compendio
della Dottrina Sociale della Chiesa, n. 405).
D’altro
canto, la pena dell’ergastolo, come pure quelle che per la loro durata
comportano l’impossibilità per il condannato di progettare un futuro in
libertà, possono essere considerate pene di morte occulte, poiché con esse non
si priva il colpevole della sua libertà, ma si cerca di privarlo della
speranza. Ma, sebbene il sistema penale possa prendersi il tempo dei colpevoli,
non potrà mai prendersi la loro speranza.
Come
ho detto nel mio discorso del 23 ottobre scorso, la pena di morte implica la
negazione dell’amore per i nemici, predicata nel Vangelo.
«Tutti
i cristiani e gli uomini di buona volontà sono dunque chiamati oggi a lottare
non solo per l’abolizione della pena di morte, legale o illegale che sia, e in
tutte le sue forme, ma anche al fine di migliorare le condizioni carcerarie,
nel rispetto della dignità umana delle persone private della libertà».
Cari
amici, vi incoraggio a continuare con l’opera che state realizzando, poiché il
mondo ha bisogno di testimoni della misericordia e della tenerezza di Dio.
Mi congedo affidandovi al Signore Gesù, che nei giorni
della sua vita terrena non volle che ferissero i suoi persecutori in sua
difesa, — «Rimetti la spada nel fodero» (Mt 26, 52) — fu catturato e
condannato ingiustamente a morte, e s’identificò con tutti i carcerati,
colpevoli o meno: «Ero carcerato e siete venuti a trovarmi» (Mt 25, 36).
Lui, che di fronte alla donna adultera non s’interrogò sulla sua colpevolezza,
ma invitò gli accusatori a esaminare la propria coscienza prima di lapidarla
(cfr. Gv 8, 1- 11), vi conceda il dono della saggezza, affinché le
azioni che intraprenderete a favore dell’abolizione di questa pena crudele,
siano opportune e feconde.
Vi chiedo di pregare per me.
Cordialmente.
Dal Vaticano, 20 marzo 2015
FRANCESCO
Suscribirse a:
Enviar comentarios (Atom)
No hay comentarios:
Publicar un comentario