7 de noviembre de 2013
Antisemitismo come ideologia
venerdì 8 novembre 2013
L’OSSERVATORE ROMANO pagina
5
Antisemitismo
come ideologia
di GIOVANNI CERRO
Nel suo ultimo libro (Antisemitismo.Un’ideologia del
Novecento, Milano, Jaca Book, 2013, pagine 247, euro 24), lo storico Francesco
Germinario, ricercatore della Fondazione «Luigi Micheletti» di Brescia,
sostiene che all’origine della Shoah, così come di tutti gli stermini
organizzati del Novecento, vi erano ideologie politiche “rivoluzionarie”, caratterizzate
da una visione del mondo complessa e volta a modificare il corso della storia,
eliminando quei soggetti, quelle istituzioni e quei sistemi sociali avvertiti
come un ostacolo per la realizzazione dell’uomo
I nemici degli ebrei non si opponevano tanto
al capitalismo in sé quanto alla sua forma finanziaria Che rendeva indigenti i
ceti medi spingendoli verso il proletariato
nuovo.
In particolare, il carattere «antisistemico e sovversivo» dell’antisemitismo
consisteva, secondo Germinario, nel contestare radicalmente l’ordine borghese
che si era imposto in Europa grazie alle trame occulte delle comunità ebraiche.
Agli occhi degli autori antisemiti, la moderna società liberale appariva dominata
dai valori giudaici del materialismo e dell’individualismo e di conseguenza aveva
subordinato la politica alle esigenze della finanza, riducendo l’uomo alla sola
dimensione economica e provocando la proletarizzazione dei ceti medi.
Con «Les Juifs, rois de l’époque» (1845) Alphonse
Toussenel inaugurò la moderna pubblicistica antisemita
Per
difendere gli interessi della piccola borghesia dagli assalti della finanza
ebraica, l’antisemitismo si opponeva non solo al liberalismo, ma anche al
socialismo marxista, considerato un concorrente politico se possibile ancora
più insidioso nella battaglia contro la modernità.
Scandagliando
la vasta galassia della pubblicistica antisemita ottonovecentesca, da Alphonse
Toussenel a Auguste Chirac, da Édouard Drumont al marchese de Morès, da
Augustin Hamon a Werner Sombart, fino a Dietrich Eckart e Gottfried Feder, Germinario
evidenzia che, nella maggior parte dei casi, i sostenitori dell’odio contro gli
ebrei non intendevano rovesciare i rapporti di produzione né abolire la
proprietà privata. Da un lato, infatti, erano convinti che a generare la
ricchezza fosse la circolazione del denaro, opera diabolica degli ebrei, e non
la produzione delle merci: il mercato era il luogo in cui il furbo Giacobbe si
prendeva gioco dell’onesto produttore Esaù, in cui il banchiere ebreo
Rothschild faceva affari alle spalle dell’industriale tedesco Krupp e dei suoi
operai. D all’altro lato, gli antisemiti ritenevano necessario
difendere i piccoli proprietari dalla concentrazione capitalistica e al tempo
stesso estendere a tutti i cittadini il diritto alla proprietà. Secondo loro,
il socialismo marxista prima e il bolscevismo poi, insistendo sull’egualitarismo
e sul collettivismo, rischiavano di produrre un impoverimento generale di
larghe fasce della popolazione.
Alla luce di queste considerazioni, l’identificazione
dell’antisemitismo con il «socialismo degli imbecilli», avanzata dai teorici
del marxismo durante la Seconda Internazionale, è per Germinario forzata e
ideologica, anche perché modellata sulla critica rivolta da Karl Marx al
socialismo utopistico. L’antisemitismo non si opponeva tanto al capitalismo in
sé, quanto a una sua forma per così dire degenerata, quella finanziaria, che
rischiava di rendere indigenti i ceti medi, sospingendoli verso il proletariato.
In fondo, gli antisemiti non avevano perso la speranza nella possibilità di una
riforma del sistema capitalistico: la loro proposta economica può essere
definita un «capitalismo popolare», teso a instaurare un regime di proprietà
diffusa, libero dalla tirannia del mercato e dal parassitismo dei finanzieri
ebrei.
L’antisemitismo si presentava dunque come un’ideologia
rivoluzionaria per le classi medie. Furono proprio loro le più sensibili al
mito del complotto ebraico, uno dei più importanti lasciti dell’antigiudaismo medievale
e moderno a quello contemporaneo che prese l’avvio nel 1845 con la
pubblicazione del volume di Toussenel, Les Juifs, rois de l’époque, e si
concluse nel 1945 con lo sterminio di sei milioni di ebrei. Nell’universo ideologico
antisemita, il timore dell’avvento di una tirannide ebraica mondiale,
alimentato dai Protocolli dei savi di Sion, procedeva di pari passo con
il ricorso sempre più frequente al concetto biologico di razza. Per gli
antisemiti, infatti, gli ebrei erano in grado di organizzare efficacemente la loro
cospirazione perché agivano come un soggetto collettivo, come una razza
appunto, mentre gli ariani non riuscivano a opporsi ai loro disegni perché a
unirli, in modo molto debole, erano solo i rapporti economici creati dalla
società liberale o la solidarietà di classe predicata dal socialismo. La
«razzizzazione dell’ebreo » consentiva invece di ancorare i legami tra gli
individui a un fondamento apparentemente saldo, ovvero la natura, alle cui
leggi anche la politica avrebbe dovuto sottostare. Se la diseguaglianza tra gli
uomini e la suddivisione in razze erano fenomeni “naturali”, le caratteristiche
del nemico erano sottratte al condizionamento della storia e considerate
immutabili nel tempo.
Da qui, la convinzione che la razza ebraica non
sarebbe mai cambiata e avrebbe continuato anche in futuro a ordire il suo
complotto per la conquista del mondo. Come scriveranno in Dialettica dell’illuminismo Max Horkheimer e
Theodor W. Adorno, «Degli ebrei bisogna
ripulire la terra».
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