14 de enero de 2010

Perché per molti ebrei ortodossi il dialogo con i cattolici è ancora difficile

L'Osservatore Romano - 13 gennaio 2010

Perché per molti ebrei ortodossi il dialogo con i cattolici è ancora difficile

I rischi dell'autosufficienza

Pubblichiamo l'articolo scritto dall'Ambasciatore di Israele presso la Santa Sede per il numero di gennaio del mensile "Pagine ebraiche" diretto da Guido Vitale.
di Mordechay Lewy

Solo pochi rappresentanti dell'ebraismo sono realmente impegnati nell'attuale dialogo con i cattolici. Nel fare questo, a volte fanno miracoli per essere ovunque in qualsiasi momento. Quali sono le ragioni per cui così pochi partecipano a questo dialogo? Per quanto siamo favorevoli al continuo dialogo ai massimi livelli ufficiali, tra il Rabbinato Centrale d'Israele e la Santa Sede, rimane scetticismo da parte della corrente principale degli ortodossi. Perché la corrente principale dell'ebraismo ortodosso, in Israele come anche altrove, non è pronta per essere coinvolta?
Vorrei premettere che il dialogo è caratterizzato da molte dimensioni di asimmetria; e con ciò non intendo soltanto la nostra sproporzione numerica rispetto ai cattolici. Mi sembra che l'ostacolo principale al confronto risieda in quello che la maggior parte degli ebrei considera come autosufficienza nel definire la propria identità religiosa. Non abbiamo bisogno di nessun altro riferimento teologico, se non la Bibbia, per spiegare la nostra vicinanza a Dio come suoi figli prescelti.
Essere i prescelti non è sempre stata una benedizione, per usare un eufemismo. All'inizio l'ebraismo non era ostile al proselitismo. Nell'antichità post-biblica l'ebraismo assorbì innegabili elementi della cultura greco-romana. Durante l'esilio, gli ebrei hanno dovuto segnare la loro identità in un ambiente potenzialmente e spesso realmente, ostile che non ha mai abbandonato il suo zelo religioso atto a convertire gli ebrei. Questa tecnica di sopravvivenza includeva un'autosufficienza teologica, l'esclusività e la negazione del proselitismo. Lo spirito medievale con l'impulso enciclopedico alla compilazione delle summae ha portato Maimonides a scrivere la sua Mishneh Torah. La sua opera fu codificata nel XVI secolo dal catechismo di Josef Caro, il Shulkhan Arukh. L'ebraismo halachico ortodosso oggi si affida largamente al catechismo di Caro. Il suo scopo è di preservare la tradizione e la tecnica di sopravvivenza a ogni costo, persino in Israele dove abbiamo creato l'unica società in cui gli ebrei costituiscono la maggioranza.
È un dato di fatto che l'ebraismo riformato e conservatore siano più aperti al dialogo con i cristiani. Lo fanno dal punto di vista della loro esperienza americana dove la convivenza tra gruppi etnici e religiosi è intrinseca alla società. L'autorità principale dell'ortodossia in America, rabbi Soloweitchik, non provava un dialogo interreligioso che conducesse alla discussione di principi di fede con i cattolici. Allo stesso tempo, non rifuggiva da un dialogo che si basasse su questioni che potessero migliorare il bene comune della convivenza sociale. Pertanto, il dialogo con i cattolici viene circoscritto ad argomenti "leggeri" che toccano più questioni di politica religiosa (bioetica, ecologia, violenza, eccetera) e che non comprendono questioni "intransigenti" quali principi dottrinali di credo (la Trinità, la venuta del Messia, i Sacramenti, eccetera). Ma ciò non è dovuto solo alla teologia esclusiva dell'autosufficienza. La maggior parte degli ebrei percepiscono la loro storia durante la Diaspora come una battaglia traumatica per la sopravvivenza contro i costanti sforzi da parte dei cattolici di convertirli gentilmente, o, nella maggioranza dei casi, coercitivamente.
L'avversione ebraica al cristianesimo esisteva già nell'antichità ed era dovuta alla "spaccatura familiare" nella quale le due parti erano in competizione per ottenere la benevolenza di Dio. Il processo di separazione della prima comunità cristiana dai vincoli dell'ebraismo tradizionale creò un vasto corpus di letteratura polemica nella quale anche gli ebrei hanno fatto la loro parte. L'animosità si è estesa al medioevo europeo, durante il quale gli ebrei vivevano come una minoranza sotto la dominazione cristiana, e fu persino ritualizzata in alcune preghiere ebraiche. Molti ebrei ortodossi non volevano entrare in una chiesa né confrontarsi con un crocifisso.
Questo comportamento che mostra un trauma continua oggi come un riflesso pavloviano. Una ferita grave e dolorosa, inflitta nel passato, si apre ogni qualvolta la vittima si trova di fronte ai simboli del carnefice. Questo modello di comportamento può essere considerato offensivo. Contribuisce a un nuovo ciclo di polemiche e di posizioni apologetiche da parte cattolica. Tuttavia, oltre a ciò, vi è anche un ostacolo invisibile e di cui non si parla. L'avvio di ogni dialogo è il senso di curiosità fondamentale di conoscere meglio la controparte. Conoscere meglio l'altro implica il comprenderlo meglio. Tolstoj, nel suo Guerra e Pace, ha coniato la famosa frase: tout comprendre c'est tout pardoner. Potrebbe essere che molti di noi, ancora traumatizzati, desiderino evitare ogni situazione in cui si debba perdonare qualcuno, specialmente se viene identificato giustamente o erroneamente come rappresentante del carnefice. La vittima ebrea sembra essere incapace di concedere l'assoluzione per misfatti lontani o recenti perpetrati contro i suoi fratelli e sorelle. Abbiamo anche un'importante asimmetria di carattere normativo. I cattolici sono abituati alla pratica settimanale della confessione per ricevere l'assoluzione. Nell'ebraismo, non esiste questa prassi: solo in occasione dello Yom Kippur cerchiamo l'assoluzione da Dio e chiediamo perdono ai nostri simili. Ma questo accade, come sappiamo, solo una volta l'anno.