di Antonio Livi
Ritengo che sia indispensabile, nell’attuale congiuntura teologico-pastorale, tener conto di quanto ha esaurientemente dimostrato Enrico Maria Radaelli nel suo ultimo lavoro ("
Al cuore di Ratzinger. Al cuore del mondo", Edizioni Pro-manuscripto Aurea Domus, Milano 2017), ossia che l’egemonia (prima di fatto e poi di diritto) della teologia progressista nelle strutture di magistero e di governo della Chiesa cattolica si deve anche e forse soprattutto agli insegnamenti di Joseph Ratzinger professore, che mai sono stati negati e nemmeno superati da Joseph Ratzinger vescovo, cardinale e papa. Questa tesi, che così enunciata potrebbe apparire a molti inaccettabile (mi riferisco a tutti coloro che finora avevano visto in Ratzinger come cardinale Prefetto della congregazione per la dottrina della fede e poi come papa Benedetto XVI un provvidenziale baluardo contro quella che lui stesso definiva "dittatura del relativismo"), ha una sua adeguata giustificazione scientifica nel libro di Radaelli, il quale analizza pagina per pagina il testo fondamentale di Ratzinger, quella "Einführung in das Christentum: Vorlesungen über das apostolische Glaubensbekenntnis", che fu pubblicata nel 1968 come rielaborazione delle lezioni di Teologia tenute nel semestre precedente dall’allora giovane professore nell’Università di Tubinga ed ha avuto nel testo originale ben ventidue edizioni, l’ultima nel 2017.
Enrico Maria Radaelli è noto come il miglior discepolo e interprete di quel Romano Amerio che nel 1985 aveva pubblicato "Iota Unum. Studio delle variazioni della Chiesa Cattolica nel secolo XX", che io considero la prima, coraggiosa e seria e documentata denuncia della presenza del modernismo teologico nella forma (retorica) e nella sostanza (ideologica) della "Gaudium et spes" e di altri fondamentali testi conciliari. Imitando lo scrupolo esegetico e l’onestà intellettuale del suo maestro, Radaelli studia attentamente il testo ratzingeriano, citandone i passaggi fondamentali da un’edizione italiana recente (cfr "Introduzione al cristianesimo. Lezioni sul Simbolo apostolico", Queriniana, Brescia 2000) e facendo subito notare – ed è uno dei dati a sostegno della tesi di Radaelli – che Joseph Ratzinger, anche quando è divenuto prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, non ha mai sentito il bisogno di rivederne o modificarne il contenuto. In effetti, nel 2000 scriveva che il suo libro avrebbe ben potuto intitolarsi "Introduzione al cristianesimo, ieri, oggi e domani", aggiungendo:
"L’orientamento di fondo era, a mio avviso, corretto. Da qui il mio coraggio oggi di porre ancora una volta il libro nelle mani dei lettori" ("Saggio introduttivo alla nuova edizione 2000", in "Introduzione al cristianesimo", ed. cit., p. 24).
Insomma, conclude Radaelli, la teologia che Ratzinger ha sempre professato e che si ritrova in tutti i suoi scritti, anche in quelli firmati come Benedetto XVI (i tre libri su "Gesù di Nazaret" e sedici volumi di "Insegnamenti") non è sostanzialmente diversa da quella della "Einführung", ed è una teologia di stampa immanentistico, nella quale tutti i termini tradizionali del dogma cattolico restano linguisticamente inalterati ma la loro comprensione è cambiata: messi da parte, perché ritenuti oggi incomprensibili, gli schemi concettuali propri della Scrittura, dei Padri e del Magistero (che presuppongono quella che Bergson chiamava "la metafisica spontanea dell’intelletto umano"), i dogmi della fede sono re-interpretati con gli schemi concettuali propri del soggettivismo moderno (dal trascendentale di Kant all’idealismo dialettico di Hegel). A farne le spese – osserva giustamente Radaelli – è soprattutto la nozione di base del cristianesimo, quella di fede nella rivelazione dei misteri soprannaturali da parte di Dio, ossia la "fides qua creditur". Questa nozione risulta irrimediabilmente deformata, nella teologia di Ratzinger, dall’adozione dello schema kantiano dell’impossibilità di una conoscenza metafisica di Dio, con il conseguente ricorso ai "postulati della ragione pratica", il che comporta la negazione delle premesse razionali della fede e la sostituzione delle “ragioni per credere”, che costituivano l’argomento classico dell’apologetica dopo il Vaticano I (Réginald Garrigou-Lagrange) con la sola “volontà di credere”, che fu teorizzata dalla filosofia della religione di stampo pragmatistico (William James). Ratzinger ha sempre sostenuto, anche nei discorsi più recenti, che l’atto di fede del cristiano ha come suo specifico oggetto, non i misteri rivelati da Cristo ma la persona stessa di Cristo, conosciuto nella Scrittura e nella liturgia della Chiesa. Ma è una conoscenza incerta e contraddittoria, troppo debole per resistere alla critica del pensiero contemporaneo. Sicché la teologia di oggi, secondo Ratzinger, non riesce a parlare della fede se non in termini ambigui e contraddittori:
"Il problema di sapere esattamente quale sia il contenuto e il significato della fede cristiana è oggi avvolto da un nebuloso alone di incertezza come mai forse prima nella storia" ("Introduzione al cristianesimo", Prefazione alla prima edizione, trad. it. cit., p. 25).
In effetti, la teologia di oggi è costretta ad ammettere che, nell’animo del credente, all’atto di fede (voluto anche se infondato) è sempre associato il dubbio. Ciò avviene perché ormai il fondamento dell’atto di fede non è più, come insegnava il Vaticano I, "l’autorità di Dio, che non può ingannarsi né ingannare gli uomini", ma è l’uomo stesso, il quale ha voluto costruirsi un’idea di Dio che soddisfi le proprie esigenze spirituali. Ma questa idea di Dio, che l’uomo religioso di oggi ha forgiato a propria immagine e somiglianza, è inevitabilmente incerta e problematica, e il teologo ne avverte la radicale incompatibilità con la cultura contemporanea:
"Chi tenta di diffondere la fede in mezzo agli uomini che si trovano a vivere e a pensare nell’oggi può realmente avere l’impressione di essere un pagliaccio, oppure addirittura un resuscitato da un vetusto sarcofago. […] Constaterà la condizione di insicurezza in cui versa la sua propria fede, la potenza quasi inarginabile dell’incredulità che si oppone alla sua buona volontà di credere. […] Sul credente pesa la minaccia dell’incertezza. […] Il credente può vivere la sua fede unicamente e sempre librandosi sull’oceano del nulla, della tentazione e del dubbio, trovandosi assegnato il mare dell’incertezza come unico luogo possibile della sua fede" ("Introduzione al cristianesimo", Prefazione alla prima edizione, trad. it. cit., pp. 34-37).
Radaelli mostra come le medesime espressioni si ritrovino nella pubblicistica del cardinale gesuita Carlo Maria Martini, arcivescovo di Milano, il quale andava ripetendo: "Ciascuno di noi ha in sé un credente e un non credente, che si interrogano a vicenda". Io aggiungerei che sono le medesime espressioni alle quali fa ricorso Gianni Vattimo, teorizzando il credere del cristiano come facente parte del suo "pensiero debole". Ma è proprio questa nozione sostanzialmente scettica della fede nella Rivelazione ciò che, secondo Ratzinger, consente alla teologia un proficuo confronto con la filosofia e con la scienza di oggi, concedendo esplicitamente ad esse il presupposto epistemologico dell’impossibilità della conoscenza razionale di Dio e della legge morale naturale. In effetti, se nemmeno il credente ha la certezza dell’esistenza di Dio e della sua presenza visibile in Cristo, nel dialogo della Chiesa con il mondo moderno bisogna parlare di Dio come di un’ipotesi: un’ipotesi che Kant riteneva necessaria per fondare la pietà religiosa, ma non un’evidenza della ragione naturale in base alla quale è ragionevole credere alla parola di Cristo, rivelatore del Padre. E così mi spiego come Ratzinger, nel suo encomiabile impegno di dialogo pastorale con la cultura secolaristica, abbia chiesto agli interlocutori di progettare una morale pubblica basata sull’ipotesi dell’esistenza di Dio (cfr Jürgen Habermas e Joseph Ratzinger, "Ragione e fede in dialogo", trad. it. a cura di G. Bosetti, Marsilio, Venezia 2005). Così argomentava il prefetto della Congregazione per la dottrina della fede alla vigilia della sua elevazione al soglio pontificio:
"Dovremmo allora capovolgere l’assioma degli illuministi e dire: anche chi non riesce a trovare la via dell’accettazione di Dio dovrebbe comunque cercare di vivere e indirizzare la sua vita 'veluti si Deus daretur', come se Dio ci fosse. Questo è il consiglio che già Pascal dava agli amici non credenti; è il consiglio che vorremmo dare anche oggi ai nostri amici che non credono. Così nessuno viene limitato nella sua libertà, ma tutte le nostre cose trovano un sostegno e un criterio di cui hanno urgentemente bisogno" ("L’Europa nella crisi delle culture", conferenza tenuta la sera di venerdì 1 aprile 2005 a Subiaco, al Monastero di Santa Scolastica, in occasione del Premio San Benedetto "per la promozione della vita e della famiglia in Europa").
Io ho letto con particolare attenzione le pagine del libro di Radaelli nelle quali questo concetto di “fede debole” è adeguatamente documentato. Esso investe una problematica filosofico-teologica che, per la sua importanza dal punto di vista pastorale, da sempre sta al centro dei miei interessi di studio (cfr Antonio Livi, "Razionalità della fede nella Rivelazione. Un’analisi filosofica alla luce della logica aletica", Leonardo da Vinci, Roma 2005; "Logica della testimonianza. Quando credere è ragionevole", Lateran University Press, Città del Vaticano 2007; "Filosofia del senso comune. Logica della scienza e della fede", Leonardo da Vinci, Roma 2010; "Quale pretesa di verità può essere riconosciuta alle dimostrazioni filosofiche dell’esistenza di Dio", in "L’esistenza di Dio. Un’innegabile verità del senso comune che dalla formalizzazione metafisica può ricevere piena giustificazione dialettica", a cura di F. Renzi, Leonardo da Vinci, Roma 2016, pp. 19-36). Le analisi di Radaelli sui testi di Ratzinger mi hanno fatto comprendere perché questo grande teologo abbia accettato come inevitabile, al giorno d’oggi, l’interpretazione fideistica del cristianesimo e abbia squalificato come inutile "apologetica neoscolastica" il ritorno alla dottrina classica dei "praeambula fidei", che è certamente di Tomaso d’Aquino ma è stata anche recepita nei documenti dogmatici del Concilio di Trento e del Concilio Vaticano I. La ragione sta nel fatto che fin dagli inizi, cioè fin dalla "Einführung", Ratzinger partecipava a quell’efficientissima operazione culturale che Cornelio Fabro definì come "avventura della teologia progressista" e che non ha come unico protagonista Karl Rahner. Si suol dare troppo importanza al dissidio dottrinale tra Ratzinger e Rahner, in seguito al quale il primo lasciò la redazione di "Concilium" e si unì ai collaboratori di "Communio". La verità è che il dissidio era solo sulla metodologia dialettica e non sui contenuti di fondo della "svolta antropologica" che entrambi intendevano imprimere alla teologica cattolica in vista di una radicale riforma della Chiesa. Per convincersene basterà rileggere quanto Ratzinger scrive a proposito della sua iniziale collaborazione con il collega gesuita durante i lavori del concilio ecumenico:
"Lavorando insieme con lui, mi resi conto che Rahner e io, benché ci trovassimo d’accordo su molti punti e in molte aspirazioni, dal punto di vista teologico vivevamo su due pianeti diversi. Anch’egli, come me, era impegnato a favore di una riforma liturgica, di una nuova collocazione dell’esegesi nella Chiesa e nella teologia e di molte altre cose, ma le sue motivazioni erano parecchio diverse dalle mie. La sua teologia – malgrado le letture patristiche dei suoi primi anni – era totalmente caratterizzata dalla tradizione della scolastica suareziana e dalla sua nuova versione alla luce dell’idealismo tedesco e di Heidegger. Era una teologia speculativa e filosofica, in cui, alla fin fine, la Scrittura e i Padri non avevano poi una parte tanto importante, in cui, soprattutto, la dimensione storica era di scarsa importanza. Io, al contrario, proprio per la mia formazione ero stato segnato soprattutto dalla Scrittura e dai Padri, da un pensiero essenzialmente storico" (Josef Ratzinger, "La mia vita. Autobiografia", Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2005, p. 123).
Questa mia digressione mi consente di tornare ad affermare che la tematica affrontata nel saggio di Radaelli e l’acume critico con cui essa è trattata rendono un grande servizio alla comprensione di ciò che sta avvenendo nella Chiesa dagli anni Sessanta del Novecento fino a oggi. Sono eventi che io ho spesso sintetizzato parlando di “eresia al potere”. Mi esprimo in termini che possono sembrare semplicistici o esagerati e invece sono pienamente giustificati dai fatti. La realtà è che la teologia neomodernista, con la sua evidente deriva ereticale, ha assunto gradualmente un ruolo egemonico nella Chiesa (nei seminari, negli atenei pontifici, nelle commissioni dottrinali delle conferenze episcopali, nei dicasteri della santa Sede), e da queste posizioni di potere ha influito sulle tematiche e sul linguaggio nelle diverse espressioni del magistero ecclesiastico, e di questo influsso hanno risentito (in grado diverso, naturalmente) tutti i documenti del Vaticano II e molti insegnamenti dei papi del post-concilio (cfr Antonio Livi, "Come la teologia neomodernista è passata dal rifiuto del Magistero ancora dogmatico all’esaltazione di un Magistero volutamente ambiguo", in "Teologia e Magistero, oggi", Leonardo da Vinci, Roma 2017, pp. 59-86). I papi di questo periodo sono stati tutti condizionati, chi per un verso chi per un altro, da questa egemonia, che proprio Joseph Ratzinger designò, poco prima della sua elezione al soglio pontificio, come "dittatura del relativismo". Paolo VI ha certamente presieduto e diretto sapientemente il Concilio dopo la morte di Giovanni XXIII, e di lui vanno ricordati alcuni interventi provvidenziali, quali la redazione della "Nota explicativa praevia" apposta alla costituzione dogmatica "Lumen gentium", nonché l’esclusione del tema del celibato sacerdotale e della contraccezione dal dibattito in aula (temi successivamente affrontati nelle encicliche "Sacerdotalis coelibatus" e "Humanae vitae"), ma allo stesso tempo ha avvalorato l’interpretazione del Concilio come una "svolta antropologica" dell’ecclesiologia, come l’istanza suprema di un riconoscimento dei valori umanistici della modernità, sulla base di una comune "religione dell’uomo". Giovanni Paolo II ebbe certamente il coraggio di condannare le deviazioni teologiche in campo morale (cfr l’enciclica "Veritatis splendor") e riprese l’insegnamento del Vaticano I contro il fideismo (cfr l’enciclica "Fides et ratio"), ma permise a Karl Rahner di consolidare la sua egemonia sugli studi ecclesiastici e onorò pubblicamente sia lui (con una lettera di encomio per i suoi ottant’anni) sia altri importanti esponenti della teologia progressista (nominando cardinali Henri de Lubac e Hans Urs von Balthasar). Allo stesso tempo si dimostrava sordo agli appelli di molti autorevoli rappresentanti dell’episcopato mondiale che gli chiedevano di contrastare efficacemente la deriva ereticale del movimento ecumenico e dei rapporti con gli ebrei (cfr Mario Oliveri, "Un Vescovo scrive alla Santa Sede sui pericoli pastorali del relativismo dogmatico", Leonardo da Vinci, Roma 2017). Del papa attuale non occorre parlare. Bastano peraltro le puntualissime citazioni che di lui riporta Radaelli in questo suo utilissimo libro.
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