5 de abril de 2012

Paolo VI e il rinnovamento dell'episcopato spagnolo - Realismo e pazienza

Paolo VI e il rinnovamento dell'episcopato spagnolo

Realismo e pazienza


L'opera dei nunzi Antonio Riberi e Luigi Dadaglio



di VICENTE CÁRCEL ORTÍ


Quando Paolo VI fu eletto Papa, a capo della rappresentanza pontificia a Madrid c'era dall'anno precedente il nunzio Antonio Riberi. Il suo consigliere era monsignor Giovanni Benelli, futuro sostituto della Segreteria di Stato per un lungo decennio, dal 1967 al 1977. Riberi fu creato cardinale il 26 giugno 1967 e l'8 luglio seguente fu nominato suo successore Luigi Dadaglio, che rimane nella capitale spagnola fino alla fine del 1980, quando fu nominato segretario della Congregazione per la Disciplina dei Sacramenti. 
Riberi morì inaspettatamente a Roma il 16 dicembre 1967, sei mesi dopo essere stato creato cardinale, e anche Dadaglio morì a Roma, per un attacco cardiaco, il 16 agosto 1990. 
Attraverso questi due nunzi Paolo VI preparò il rinnovamento dell'episcopato, introducendo gradualmente al suo interno prelati giovani che avrebbero svolto un ruolo protagonistico nella vita socio-politica spagnola dei primi anni postconciliari. 
Entrambi i nunzi vissero circostanze analoghe e mostrarono anche caratteristiche molto simili, per cui la nunziatura di Dadaglio fu una continuazione della linea innovatrice introdotta da Riberi, soprattutto nei loro rapporti con il potere politico e nelle nomine episcopali. Entrambi trovarono la Chiesa spagnola tesa tra due atteggiamenti e comportamenti: un conservatorismo immobilista che si afferrava al passato e un certo progressismo utopico che esigeva rotture e cambiamenti radicali e urgenti. Entrambi dimostrarono grande realismo nell'affrontare la situazione spagnola e mostrarono di possedere un'ampia visione del futuro. Perciò non si lasciarono condizionare dalle difficoltà e dalle incomprensioni che la congiuntura spagnola presentava loro, anzi compresero rapidamente che la loro missione era di contribuire a costruire un futuro che già iniziava a essere presente. 
Entrambi si trovavano a Madrid quando le relazioni tra la Chiesa e il regime politico cominciarono a indebolirsi sempre più. Si resero subito conto che lo strumento giuridico su cui si basavano queste relazioni era obsoleto ed era diventato perfettamente inutile, perché il Concordato del 1953 non era pensato, né strutturato, per una Chiesa in conflitto con lo Stato. Perciò non servì quasi a nulla quando tali conflitti ebbero inizio. 
Questa tensione tra presente e futuro non li spinse però a prendere o a proporre decisioni fulminanti, ma intrapresero l'opera di rinnovamento ecclesiale promossa dal concilio Vaticano II. 
Nell'ottobre del 1968, l'ambasciatore spagnolo presso la Santa Sede, Antonio Garrigues, ribadì a Paolo VI il desiderio di giungere a una rapida revisione del Concordato del 1953. La Conferenza episcopale fu informata circa la decisione dal nunzio il 18 novembre seguente e fu invitata a formare un gruppo di studio per esaminare la questione e per preparare un prospetto dei punti da sottoporre a un'eventuale revisione. Dadaglio intraprese la revisione-riforma del Concordato con realismo e con pazienza, attraverso un dialogo costante con settori molto divergenti tra loro.
Fin dall'inizio incentrò la sua attenzione sull'autentico punctum dolens di quella situazione concordataria: il privilegio di presentazione per la nomina dei vescovi, in parte ancora vigente. Questa fu sempre la sua grande preoccupazione perché era anche la grande preoccupazione di Paolo VI. Nei lavori di revisione del Concordato si possono segnalare le seguenti tre tappe: innanzitutto i tentativi falliti di una previa e reciproca rinuncia al sistema di privilegi, così come li contemplava il Concordato del 1953. Dadaglio pensava che, se si fosse ottenuta questa rinuncia previa, sarebbe stato fatto un grande passo avanti nel chiarire una situazione confusa e sarebbe stato l'inizio di una Chiesa libera da vincoli che avrebbero potuto oscurare la sua missione apostolica. 
I suoi due grandi punti di appoggio nel tentare questa via furono: la volontà del Papa, espressa attraverso le istruzioni che impartiva la Segreteria di Stato, e in particolare il sostituto, monsignor Benelli, e il parere maggioritario della Conferenza episcopale spagnola che fu sempre per lui un necessario punto di riferimento. Ma non ottenne né la comprensione né la collaborazione dell'altra parte interessata.
Secondo punto fu la revisione completa del testo concordatario del 1953. Il realismo a cui ho fatto riferimento prima lo portò a convincersi che un Concordato di "tesi e completo", alla maniera tradizionale, era ormai impossibile, sia perché erano cambiate le basi teologiche (ecclesiologia del concilio Vaticano II e libertà religiosa, come diritto fondamentale della persona) sia per la congiuntura storica che la Spagna stava attraversando (un regime personalistico che, per legge naturale, si avvicinava alla sua fine). Perciò pensò sempre che il nuovo Concordato avrebbe dovuto essere diverso: un testo conciso, senza dichiarazioni dottrinali, di carattere funzionale e con rinVII a stipulazioni di diverso livello, nelle quali la Conferenza episcopale avesse un ruolo preponderante. Anche questo intento fallì. Le cause furono molte e diverse. Infine gli "Accordi parziali". Appena restaurata la monarchia (22 novembre 1975) e con essa la democrazia, iniziarono colloqui, che erano stati praticamente sospesi per un quinquennio (1970-1975), tra la nunziatura e i ministeri degli Affari esteri e della Giustizia. Questi accordi parziali avrebbero progressivamente abrogato il Concordato del 1953. 
Non si può passare sotto silenzio l'eccezionale importanza che, per proseguire questo cammino, ebbe l'iniziativa di re Juan Carlos di rinunciare all'uso del cosiddetto privilegio di presentazione. Tale iniziativa poté contare sempre sull'appoggio entusiastico e grato sia di Paolo VI sia del suo nunzio a Madrid. Questo storico primo passo servì a mettere a fuoco in modo nuovo le relazioni tra la Chiesa e lo Stato in Spagna.
La storia di questa negoziazione visse naturalmente momenti per nulla facili. Il nunzio Dadaglio però non dubitò mai che fosse quello il cammino giusto, anche se non aveva un modello da imitare e da seguire. Si stava aprendo un nuovo cammino e bisognava tener conto delle inevitabili imperfezioni. Nella tappa storica a cui stiamo facendo riferimento (1967-1980) e sempre nell'ambito preciso delle relazioni tra Chiesa e Stato, c'è un momento di fortissima crisi che non si può omettere e che esige un maggiore chiarimento, riguardo sia alle sue cause sia ai suoi effetti. Mi riferisco al fatto, quasi unico nella storia del diritto concordatario, dell'elaborazione di un Concordato senza coinvolgere la nunziatura e di conseguenza la Conferenza nazionale. Questo testo noto come Concordato ad referendum fu inviato alla nunziatura e alla Conferenza episcopale alla fine del 1970 e fu respinto quasi all'unanimità dai vescovi nell'assemblea straordinaria del febbraio 1971. Tale iniziativa creò in quel momento una comprensibile confusione, ma il nunzio non si sentì mai né incompreso né tanto meno abbandonato dal Papa, nel quale trovò sempre totale comprensione e accettazione del proprio operato. 
La sua affermazione, tante volte ripetuta, "il Papa non la pensa così", costituì per lui un forte punto di appoggio nel suo non sempre facile servizio alla Chiesa e alla Spagna, anche se istanze intermedie non gli diedero sempre ragione e non compresero il suo atteggiamento. 
La missione diplomatica di Dadaglio terminò un anno dopo la firma degli "Accordi parziali" del 1979, che presupposero un riconoscimento del suo lavoro durante il suo soggiorno in Spagna, riconoscimento ribadito da Giovanni Paolo II, che lo creò cardinale nel 1985. 
Il nunzio agì in modo molto discreto nei suoi interventi pubblici. Il 9 giugno 1973 ritenne opportuno concedere una lunga intervista al giornale "Pueblo" per chiarire questioni importanti. Era la prima volta che monsignor Dadaglio concedeva un'intervista a un giornale spagnolo e a sei anni dal suo arrivo a Madrid. Fu un'intervista profonda, brillante e suggestiva concessa al giornalista Pedro Rodríguez, che gli fece le domande con curiosità serena e sistematica. Alcune anche con spirito polemico. Il nunzio comunque non si rifiutò di rispondere. Fu un'eccellente dimostrazione di come rispondere serenamente a interrogativi delicati. Fra le altre cose il nunzio segnalò: "Si è parlato di separazione tra potere civile e autorità ecclesiastica. Bisogna capire bene queste parole, non interpretare la separazione come distanziamento. Ognuno nel suo campo. La Chiesa ha sempre insegnato, fin da san Pietro, che bisogna rispettare l'autorità. Il sacerdote, e persino il vescovo, come cittadino deve rispettare le leggi del suo Paese. Ciò è evidente. Ebbene: in quanto alle relazioni Chiesa-Stato, ognuno deve stare al suo posto". 



(©L'Osservatore Romano 31 marzo 2012) 

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